Radici cristiane sì. ma solo per simonie e finti pentimenti; dopodiché, fottiamoci senza rancore, anzi con. Papi che berciano, marmaglia perbene che caccia donne e bambini, mammoni perennemente a casa, fassini che profetizzano (te prego, fallo sul Toro!!), no tav e anarchici in galera. L’ordine è ripristinato. Siamo delle merde e non ce accorgiamo nemmanco più..
Colonna sonora; Personal & the Pizzas, Le Carogne, Suicidal, Gentlemens, Barbacans and much more…
Ni dieu ni maître, une histoire de l’anarchisme
https://www.youtube.com/watch?v=h4sFRBBRu1s
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Répression contre Radio Canut : un animateur sous contrôle judiciaire
mardi 25 octobre la police à opéré une perquisition dans les locaux de radio canut, des enregistrement du direct* ont été saisis. ceci fait suite à des propos tenus à l’antenne en direct la semaine précédente. Une plainte pour « provocation au terrorisme » a été portée à l’encontre de deux animateurs. Notre président a été entendu comme témoin et deux animateurs ont été convoqués par les flics. Il s’agissait de propos vis à vis des actuelles manifs de flics. Un animateur a été placé en garde à vue mercredi 26 octobre. Il a un contrôle judiciaire et n’a plus le droit d’animer l’émission jusqu’au procès. Nous vous tiendrons informés du futur jugement.
Vive la radio libre !
Salutations canusiennes
* que les radios ont l’obligation légale de garder.
Radio Canut perquisitionnée à cause d’une blague
Communiqué de presse du 2 Novembre 2016
Deux animateurs d’une émission musicale de Radio Canut seront prochainement jugés pour « provocation au terrorisme ». Ils risquent jusqu’à 5 ans d’emprisonnement et une lourde amende. Une première pour les radios en France !
Le mardi 25 octobre 2016, Radio Canut a été perquisitionnée dans la matinée. Cinq flics de la police judiciaire et une procureure sont venu.e.s saisir l’enregistrement d’une émission du jeudi 20 octobre où deux animateurs ont fait une blague entre deux morceaux de musique punk :
« En ce moment, y a une manif de flics à Bellecour.
– Avis à tous les suicidés, avis à tous les suicidaires : que votre dernier acte de vie soit utile, faites-vous sauter dans la manif des flics.
– On vous fera un bel enterrement avec une belle boum.
– Suicidés, suicidaires, organisez-vous.
-Oh mais ils sont là pour nous protéger quand même ! »
Ces propos tenus sur les ondes du 102.2 sont au second degré, c’est de l’humour ! Confondre terrorisme et satire est apparemment de mise dans une période d’état d’urgence.
Dans “Cambouis”, un fanzine édité par Luz au lendemain du 21 avril 2002 (n°9, juillet 2002), il avait prêté ces propos à Charb : « Si j’apprends que j’ai un cancer, j’achète une kalach’, je vais dans un meeting du FN et je tire dans le tas. » Ni Luz, ni Charb à l’époque n’avaient été poursuivis en justice.
Qualifier en terrorisme ces faits montre le climat de paranoïa et ouvre la voie à une répression accrue et ciblée contre les médias alternatifs.
Rebelle, sans publicité, sans salarié, Radio Canut ne demande son CV et ses papiers à personne et fait faire le ménage à tout le monde.
Radio Canut est et restera un espace où s’exprimer en dehors des codes de la bienséance académique.
Longue vie à Radio Canut !
Il sorriso delle labbra e degli occhi, la risata sonora e contagiosa, il perenne ottimismo. E’ l’icona che i media di tutto il mondo presentano del Dalai Lama, una sorta di “dio-re in terra” senza più trono e senza più terra. Chi ha visto “Kundun o Sette anni in Tibet” sa già molto della vita di Sua Santità Tenzin Gyatso prima dell’esilio, dell’infanzia in un povero villaggio contadino dell’Amdo, dove fu prelevato bambino da una delegazione di alti dignitari dell’ex governo tibetano e trasferito nell’immenso e leggendario palazzo di Potala di Lhasa, la capitale del Tibet. E sa anche della sua fuga avventurosa, nel 1959, attraverso le nevi dell’Himalaya, quando i cinesi decisero che il Tibet era parte della neonata Repubblica popolare comunista e che, di conseguenza, i suoi abitanti avrebbero dovuto restituire la fede nel Dalai Lama e in Buddha con quella in Mao e Marx. Ciò che nessun film e nessuno dei libri di successo stampati e diffusi in milioni di copie ha mai potuto mostrare è il suo odierno conflitto interiore, un magma incandescente di risentimenti, dubbi, complessi umanissimi e dolenti che lo assalgono come demoni durante le sue lunghe sedute di meditazione e mentre sorride all’ennesima telecamera. Sebbene tutto il mondo si rivolga a lui con il titolo di Sua Santità Tenzin Gyatso, a differenza del nostro Papa, ritiene di non essre infallibile e ogni decisione, passata o presente, è sottoposta al vaglio del suo spirito critico e inflessibile. La principale differenza dottrinale con l’erede di San Pietro sta nel fatto che, mentre il capo della Chiesa cattolica ha il supporto della fede nel potere assoluto di Dio, il Dalai Lama può contare su un alleato altrettanto potente: Buddha l’illuminato, infatti, fu un uomo in carne e ossa che riuscì a superare i limiti del desiderio e dell’avversionee a ritrovare la propria purezza originaria, ma non riuscì a liberare di sua personale iniziativa gli esseri umani dalla sorte meschina di nascere, ammalarsi e morire. Nonostante dunque le sue buone intenzioni, il monaco-re del Tibet subisce impotente da mezzo secolo gli eventi che trascinano la sua cultura e il suo popolo verso quello che lui stesso ha definito un “genocidio culturale”. E questo lo costringe a porsi molte domande di terribile portata: ho fatto bene a fuggire dal Tibet nel ’59? Ho fatto bene a perseguire per trent’anni l’obiettivo dell’indipendenza dalla Cina ? E poi, ad accontentarmi di proporre l’autonomia amministrativa? Potevo evitare gli attuali conflitti che certe scelte hanno causato tra la mia stessa gente? Ma i molti dubbi che lo assalgono non sono soltanto politici. C’è difatti una guerra di religione di cui poco si parla, che rischia di danneggiare seriamente la stessa immagine liberale e pacifica del buddhismo di cui il Dalai Lama è simbolo vivente. E’ un conflitto agitato in nome di uno spirito dall’incerta matrice divina o demoniaca, che sta dividendo e allarmando la comunità tibetana in esilio, e di conseguenza il suo leader e portavoce ufficiale nel mondo. Per capire bene dove e come nasce questa vicenda dai contorni oscuri che sembra uscire da un sogno di Borges, bisogna fare un salto indietro nel tempo e nello spazio, addentrandosi in un luogo dove convivono realtà e immaginazione, magia e storia. Quando aristocratici, lama e dignitari del suo governo ancora in carica prima dell’invasione cinese implorarono il giovanissimo Kundun di prendere in mano le sorti del potere temporale, il Tibet era già sconvolto da feroci lotte religiose e tribali prima ancora che dalla terribile influenza di Pechino. A differenza dell’Occidente, in Tibet certi influssi nefasti non sono però attribuito soltanto all’attività degli uomini. Con loro interagiscono forze e esseri di varia natura, più o meno benevoli, più o meno illuminati. Quando il Dalai Lama, XIVesimo nel lignaggio delle sue incarnazioni terrene, entrò in contatto con una di queste entità aveva all’epoca poco più di sedici anni, un’età difficile per qualunque suo coetaneo, figurarsi per un ragazzo al quale la sorte mette in mano il destino di sei milioni di anime. Si fece forza e si affidò ai suoi amati tutori e consiglieri, alle divinità protettrici del Tibet e alle capacità della sua mente, allenata fin dall’infanzia alla concentrazione. Più d’una volta furono consultati gli oracoli di Stato, le divinità tradizionali Nechung e Ganden, e più d’una volta essi vaticinarono un grande pericolo, consigliando il suo allontanamento dal palazzo del Potala di Lhasa per timore di un imminente assalto cinese. Fu durante uno di questi repentini trasferimenti che i suoi fidati medium, monaci capaci di comunicare in stato di trance coi numi tutelari, rimasero bloccati a Lhasa senza poter seguire il loro giovane assistito. Il quale finì in un monastero quasi ai confini con l’India, dove i religiosi locali lo riempirono di cure e attenzioni, offrendo al giovane “dio-re” incerca di consigli anche i servigi di un vecchio monaco-medium. Quest’uomo non era però in contatto con le divinità ufficiali, ma con uno spirito potente e (si scoprirà dopo) incontrollabile chiamato Dorje Shugden. Kundun non diffidò troppo del vecchio medium, in parte perché le prime risposte offerte ai suoi quesiti furono precise e intelligenti, in parte perché il suo maestro-tutore più giovane, Trijang Rinpoche era un devoto di Dorje Shugden, e ciò che dice il maestro nella religione tibetana è indiscutibilmente la parola del Buddha stesso. Fu così che il XIVesimo passò sopra ai motivi che, nei secoli passati,a vevano spinto i suoi predecessori, primo fra tutti il Grande Quinto Dalai Lama nel diciassettesimo secolo, a tenere a distanza questo essere dall’incerta natura divina. Certo, aveva letto con attenzione l’autobiografia del Grande Quinto laddove narrava di un famoso lama suo contemporaneo deceduto in circostanze misteriose e ricomparso dopo la morte nella forma terrifica dello spirito di Dorje Shugden. Aveva anche letto che quel lama, da vivo, gareggiava in potenza col Grande Quinto in un’epoca in cui la carica di Dalai LAma non era universalmente riconosciuta in Tibet come la più alta e indiscussa, e che forse il lama morì ucciso per motivi di potere in un Paese delle Nevi dove tra religione e politica non c’era alcuna differenza. Comunque fossero andate le cose tre secoli prima al suo illustre predecessore, la fiducia nel giovane tutore e nel vecchio medium avvicinarono Kundun così tanto a Dorje Shugden da fargli inserire tale spirito nel pantheon buddhista venerato e accettato da quasi tutti i tibetani, in particolare dai seguaci della scuola dei cosiddetti “Berretti gialli”, scuola alla quale apparteneva anche il Dalai Lama. In più i “Berretti gialli”, anche se non tutti, hanno a lungo considerato Dorje Shugden come il protettore extramondano che dall’alto sosteneva il grande potere di questa scuola negli oltre tre secoli di dominio incontrastato sul Tibet. Una sorta di arcangelo dagli occhi terrifici, iconograficamente armato di spada su sfondo di fiamme e oceani di sangue, secondo i suoi devoti capace di offrire servigi immediati, potere e ricchezza. Qualcuno sostiene che fu lo stesso Dorje Shugden a consigliare la via di fuga del Dalai Lama quando, nel ’59, i cinesi presero a bombardare il palazzo d’estate del Norbulinka a Lhasa. Vero o falso, la scelta di lasciare il Paese delle Nevi non fu né semplice né scontata per un giovane uomo assiso sul trono più alto del mondo. La seconda grande autorità spirituale tibetana, il Panchen Lama, aveva ad esempio scelto di restare, sopportando anni di carcere e torture per non abbandonare il suo popolo nelle mani dei crudeli e atei invasori cinesi. Il dubbio di aver commesso un errore angosciò il Dalai Lama anche nel suo esilio indiano, ma col dado ormai tratto andava scelta una strategia politica per il futuro. Emotivamente il giovane Kundun era scosso dai racconti delle centinaia di migliaia di vittime dell’invasione cinese sui suoi altipiani. E l’idea del tutto utopica di una lotta per l’indipendenza, sostenuta addirittura dalla Cia americana, prese corpo e si sviluppò al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel frattempo gli oracoli di Stato Nechung e Ganden sembravano come muti e assenti, all’apparenza estranei ai conflitti terreni del proprio protetto. E l’ormai ventenne leader spirituale in esilio iniziò a sentire tutto il peso della solitudine terrena di fronte a scelte tanto complesse, I suoi tutori erano a loro volta divisi, a cominciare dal culto dello spirito di Dorjie Shugden che pareva entrare sempre più in conflitto con le divinità “ufficiali” del Tibet, al di là dell’appartenenza a questa o quella scuola buddhista. A sostenere la pratica settaria di Dorje Shugden erano rimasti, oltre al tutore giovane Trijang Rinpoche, che lo aveva seguito nell’esilio indiano, tutti i dignitari più conservatori della scuola dei “Berretti gialli”, convinti che solo la degenerazione spirituale dovuta alle aperture del Dalai Lama a tutte le altre scuole del buddhismo tibetano (nonché ovviamente al mondo esterno) avessero aggravato i già seri problemi del popolo degli altipiani. Il Dalai Lama, del resto, non aveva troppe alternative all’apertura ecumenica, compresi i credo religiosi di altri Paesi come l’India, che lo aveva accolto dopo la fuga assieme a 100mila profughi. Fin dai primi anni difficili dell’esilio, però, iniziò ad avere sogni e segni infausti ed inquietanti legati a questo spirito di Dorje Shugden, premonizioni inqueitanti, profezie di sciagure e ostacoli. Ma solo nel 1978, dopo divinazioni, riflessioni, altri sogni e consulti con alcuni anziani e saggi lama del suo seguito, pervenne alla decisione di annunciare pubblicamente la sua scelta di non praticare più Dorje Shugden. Spiegò con grande sincerità e dovizia di particolari di aver sbagliato tutto , specialmente a non seguire l’esempio dei suoi predecessori, di aver favorito come in un patto faustiano uno spirito rivelatosi negativo per la causa del Tibet e per lui stesso. E anche se non ne vietò mai il culto, disse però che i suoi seguaci più diretti, i membri del governo in esilio r coloro che chiedevano da lui insegnamenti e chiarimenti sulle iniziazioni tantriche, dovevano evitare di invocarlo. La gran parte dei fedeli accettò senza battere ciglio questa richiesta. Ma il dissenso raccolto intorno ai discepoli del carismatico e potente tutore Trijang Rinpoche, a sua volta erede spirituale di un altro famoso guro devoto allo spirito di Dorje Shugden e vissuto ai primi del ‘900, provocò a poco a poco una frattura insanabile all’interno della comunità in esilio. Cominciano a diffondersi confusione e sgomento tra i buddhisti di tutto il mondo, e i seguaci dello spirito di Dorje Shugden, ovvero i seguaci della scuola dei “Berretti gialli”, vengono guardati con sospetto e con timore misto a odio. I tibetani esuli, in particolare, li accusano del triplice delitto e li emarginano di fatto dalla comunità civile e religiosa. Accade così ciò che il Dalai Lama sentiva e temeva. Attaccati, i devoti di Dorje Shugden decidono di uscire allo scoperto e di reclamare pubblicamente la libertà del loro culto con imponenti cortei e manifestazioni anti-Dalai Lama in India, Stati Uniti d’America, Inghilterra, davanti agli occhi distratti di un’opinione pubblica internazionale rapita dal carisma del guru della pace e del dialogo, che aveva vinto il Nobel e umiliato il potente imperatore rosso della Cina. Molti lama pro-Dorje Shugden diventati famosi in Occidente organizzano una “Coalizione Internazionale Dorje Shugden”: diffondono materiale di propaganda contro il Nobel e tentano di sfruttare ogni circostanza per criticare non solo il suo divieto, ma le sue stesse scelte politiche e strategiche da mezzo secolo a questa parte. Non è dunque un caso se proprio lo stesso Dalai Lama incontrò, durante la sua visita in Italia , per la precisione a Milano, uno tra i più noti esponenti di questa “Coalizione Internazionale Dorje Shugden”, Ganchen Tulku, un lama tibetano piuttosto popolare proprio in Italia, fondatore a Milano di un centro spirituale e medico frequentato da personaggi della cultura e dello spettacolo. Ganchen Tulku fu il primo lama a volare dall’Occidente a Pechino per riconoscere il piccolo Panchen, insediato sul trono dei reincarnati dal leader cinese Jang Zemin al posto di quello riconosciuto dal Dalai Lama e tuttore tenuto prigioniero con la famiglia in qualche luogo segreto e misterioso. Per gli uomini di Kundun sarebbe tale vicinanza tra seguaci di Dorje Shugden a autorità cinesi la prova che Pechino ha fomentato e sfruttato la lotta intestina sul culto dello spirito di Dorje Shugden per danneggiare l’immagine suadente che il Dalai LAma ha costruito da questìaltra parte del mondo. Di tali problemi Sua Santità Tenzin Gyatso parla spesso. Dice che è pronto a pagare le conseguenze delle sue azioni errate, come indica la logica buddhista di causa-effetto. Ma quale prezzo è più alto degli anni d’esilio e della ormai inarrestabile degenerazione dentro e fuori l’amata Terra delle Nevi? La sua razza si estingue per il trasferimento forzato di decine di migliaia di coloni cinesi anche con l’aiuto economico della Banca mondiale; la lingua viva scolorisce perché molti tibetani in patri parlano soprattutto cinese anche tra di loro; il paesaggio di sogno degli altipiani sparisce a causa del disboscamento, delle discariche, della cinesizzazzione urbanistica delle città . Egli stesso, d’altro canto, è destinato a scomparire, almeno ufficialmente, perché il governo di Pechino ha già annunciato che alla sua morte nominerà un Dalai Lama fantoccio, com’è successo con il Panchen. Per questo Kundun ha già detto che farà in modo di rinascere in un PAese libero, magari biondo e con gli occhi azzurri, o addirittura donna . Ma nulla riporterà in vita. con la sua prossima incarnazione, anche l’antico popolo degli altipiani e le sue millenarie tradizioni. Gli eredi dei fieri Khampa saranno gli antichi vichinghi, diluiti nel mondo, per metà cinesi in Cina e per metà occidentali all’estero, un popolo disperso e senza radici. Come tanti altri che affollano questo nostro pianeta. Ma intanto in Sri Lanka nessuna chiesa è al sicuro per i buddhisti. Le chiese sono state attaccate almeno 65 volte e le violenze continuano senza tregua. La maggioranza della popolazione dello Sri Lanka è buddhista. I buddhisti poi hanno un’immagine di tolleranza e di pacifismo, ma in Sri Lanka la realtà è un’altra. Quando per esempio una ventina di buddhisti ha assalito una chiesa a Mettegoda ed hanno bruciato delle Bibbie. Oltre ad avere provocato degli incendi dolosi in altre due chiese nella capitale Colombo. Sono solo alcuni esempi di una lunga serie di attentati. Che le violenze aumentino è anche dimostrato dal fatto che prima venivano attaccate solo le piccole chiese di campagna. Ora però si attaccano anche le chiese delle città, quelle più grandi, presenti già da secoli nello Sri Lanka. Da due anni il clero buddhista lotta con zelo per la ratificazione di una legge contro il proselitismo, simile a quella già adottata in alcuni Stati dell’India. Questa legge dovrebbe rendere punibili i tentativi di persuadere la gente ad aderire ad un altro credo religioso tramite qualunque tipo di coercizione. Secondo molti buddhisti la carità cristiana non è un’espressione genuina dell’amore per il prossimo, ma solo un’esca per guadagnare anime.
Di rientro dall’estero ho scoperto la verità sulla regina di Saba. Un personaggio biblico che ha ispirato scrittori e artisti, ma
è sempre rimasto misterioso. Ora
Di rientro dall’estero ho scoperto la verità sulla regina di Saba. Un personaggio biblico che ha ispirato scrittori e artisti, ma
è sempre rimasto misterioso. Ora però riemerge dal passato. La Bibbia narra che questa mitica regina accettò la sfida di Salomone: gli pose enigmi per accertarne la saggezza e, avute le risposte, decise di convertirsi. Ma oggi, grazie a testi di altre culture e a nuovi ritrovamenti, si sa anche che… sarebbe stato re Salomone, grazie al suo straordinario potere sugli uccelli, a invitare a Gerusalemme la regina di Saba: le mandò un messaggio con un’upupa. Lei adorava gli uccelli ed il sole e lui voleva convertirla. L’upupa si recò dalla regina nello Yemen, col messaggio di re Salomone nella zampa. Prima di accettare l’invito, la sovrana inviò al re, per impressionarlo, doni preziosi. Ma dopo la sfida degli enigmi, si convertì. Dai testi etiopi alla letteratura araba, dal Rinascimento ai romanzi di Flaubert, tutto fa pensare che sia davvero esistita. Bella, intelligente, regina di un favoloso regno del Sud. Una donna così colta da decidere di verificare lei stessa la sapienza di re Salomone, il profeta, il saggio dei saggi. La storia della mitica regina di Saba, appena accennata dalla Bibbia, ha ispirato per secoli poeti, cantastorie, scrittori , artisti. Superando per popolarità altre famose donne dell’antichità. Eppure il racconto occupa poco spazio nell’Antico Testamento: in sintesi dice che, avuta notizia della sapienza di re Salomone, la regina di Saba decise di metterlo alla prova con alcuni misteriosi enigmi. La regina si recò quindi dallo Yemen a Gerusalemme con un corteo di giovani e con cammelli che portavano aromi, oro e pietre preziose. Salomone rispose a tutti i suoi quesiti. Lei lo elogiò, lui l’ammirò. Poi la bella sovrana ritornò nel suo regno del Sud. Dopo essere stata ovviamente…A letto con il re. Ma il quesito che noi studiosi poniamo
è questo:
è realmente esistita una regina che intraprendeva lunghi viaggi alla ricerca della sapienza? Sulla base degli ultimi scavi archeologici nel tempio di Bilqis (nello Yemen) e dalle ricerche sul suo mito, oggi sembra accertato che la regina di Saba non fu solo un personaggio biblico. Gli arabi la chiamano Bilqis. Gli etiopi Makeda. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.) Nikaula. I greci la Minerva Nera. La regina compare nel Corano e nei testi arabi successivi. E soprattutto nel KEBRA NAGAST, la Bibbia dei rastafariani (http://www.ras-tafari.com/kebra-nagast/ ) e anche della tradizione cristiana etiopica. Salí al trono nel 1930, come 225 ° discendente di Salomone e della regina di Saba (Makeda), secondo di una linea di parentela dettata appunto dal KEBRA NAGAST , la Bibbia dei rastafariani. Si chiamava Ras Tafari Makonnen, incoronato con il nome di Hailé Selassié. Milioni di persone lo vedevano e lo vedono ancora oggi come il nuovo Messia. (Che non sarebbe mai morto. Infatti, la mancanza di foto, video, la negazione dei funerali, la scelta di non mostrare il suo corpo, la provata falsità delle cause fisiche addotte per giustificare il decesso, sono per loro la dimostrazione della veridicità della propria fede) Questo grazie soprattutto alle profezie del giamaicano Marcus Garvey che considerava l’Etiopia una nuova Terra Promessa, in anni di lotte per i diritti degli afroamericani, sfociate nella credenza che il Cristo fosse di pelle nera. Nacque così il movimento religioso dei rastafariani, da Ras Tafari, il nome dell’imperatore etiope. Tra i dreadlocks , le treccine dei capelli e l’aspirazione del ritorno nella Terra Promessa d’Etiopia aspettando il ritorno del Messia Ras Tafari , i rastafariani sono oggi conosciuti soprattutto per l’uso della marijuana, vera e propria erba sacra sotto molti aspetti , Viene sostenuto che l’erba ganja sia cresciuta sulla tomba del Re Salomone, chiamato il Re Saggio, e da esso ne tragga forza. E per la grande influenza della musica Reggae . Si diffusero in molti Paesi , soprattutto sulla costa atlantica del Sud America e nei Caraibi. Il loro obiettivo primario : l’abolizione della schiavitù e il ritorno di tutti i neri in Africa. Nel 1966 Hailé Selassié si recò in Giamaica accolto da una folta entusiasta . E rimase lui stesso sorpreso di essere ritenuto da quella gente addirittura il nuovo Messia . Con un gruppo di sacerdoti copti portati dal suo Paese cercò di spiegare loro che era solo una guida.Che la descrivono con ricchezza di particolari: secondo la tradizione araba, dopo la prova degli enigmi e lo scambio dei doni, la regina di Saba non se ne era andata subito via. Prima aveva avuto il tempo di sposare Salomone. I cristiani copti d’Etiopia aggiungono che la regina andando a letto con Salomone (sembra per una scommmessa: non aveva saputo resistere, come aveva promesso, al desiderio di bere dopo aver mangiato cibi piccanti) avrebbe contribuito a fondare il regno d’Etiopia: dal suo rapporto con Salomone nacque Menelik che, una volta cresciuto, andò a Gerusalemme per farsi riconoscere dal padre. Poi Menelik ritornò in Etiopia con l’Arca dell’Alleanza. Menelik, il figlio della regina di Saba e di re Salomone, quindi avrebbe portato l’Arca dell’Alleanza in Etiopia. Ogni anno una copia dell’Arca sfila ad Axum. Mentre la copia originale dell’Arca dell’Arca dell’Alleanza si troverebbe ancora oggi proprio in Etiopia. Solo un fantasioso mito di fondazione di un grande impero africano? No, assolutamente. E’ confermato da fonti storiche inoppugnabili. E l’incontro fra Salomone e la regina sarebbe avvenuto nella cronologia biblica intorno al X secolo a.C. Inoltre bisogna ricordare che molti racconti biblici sono fatti di una retrodatazione dei fatti. Sappiamo con certezza assoluta per esempio che gli Ebrei avevano molti contatti col regno di Saba, ma questo a partire dall’epoca del secondo tempio di Gerusalemmme cioè intorno al V secolo a.C. Dal regno di Saba comperavano l’incenso per il tempio ed è certamente possibile che i racconti della regina siano arrivati a loro attraverso le carovane dei mercanti . E’ anche vero, però che l’esistenza di diverse fonti sulla regina è un indizio per sostenere che si tratti senza dubbio di una storia vera, anche se condita con alcune esagerazioni. Nel mondo antico tutto sommato era difficile inventare, ma molto facile abbellire: il primo tempio di Gerusalemme edificato da Salomone, se venisse ritrovato, forse ci apparirebbe solo un piccolo santuario. E probabilmente le consorti del re furono “solo” qualche decina, non 700 ! C’è comunque un altro motivo valido per ritenere la regina di Saba un personaggio realmente esistito . Quando cerchiamo di isolare i fatti dalle finzioni narrative della Bibbis ci basiamo spesso sul principio di contraddizione : tanto più una storia urta contro la morale dell’epoca, quanto più è da considerarsi vera. Scopo del racconto biblico era magnificare la potenza di re Salomone, la cui fama di sapiente raggiunge un grande regno lontano, il cui capo decide di andargli a fare visita. Ma questo capo è una donna, la regina di Saba appunto. E nella società ebraica del tempo le donne erano poco considerate. Se si fosse deciso di creare una leggenda, sarebbe stato più in linea coi tempi usare la figura di un grande re. Il fatto che si parli invece di una regina può rivelare un nucleo di verità storica. Che cosa può invece dirci la tradizione araba? Se è vero che l’incenso per il tempio di Gerusalemme veniva dallo Yemen, proprio in Sud Arabia, secondo racconti che circolavano molto tempo prima del Corano ( Vi secolo d.C.), era presente una grande civiltà. E lo stesso testo sacro dell’Islam si riferisce a un popolo di Saba adoratore del sole, scomparso per la rottura di una grande diga a Marib, nell’attuale Yemen, disastro causato dalla collera di Allah ! Una delle tante storie educative sulla potenza di Allah? Forse, ma una cosa è certa: opere idrauliche e dighe che avevano resi fertili migliaia di ettari di terra sono state trovate dagli archeologi non lontano da Marib, a 120 chilometri dalla capitale yemenita Sana’a. Qui c’è anche il tempio di Bilqis, il Mahram Bilqis, un santuario che prendeva già nell’antichità il nome della regina di Saba (Bilqis) nella tradizione araba. Con un’area cerimoniale di 5 mila m³, è il più grande santuario della regione arabica antecedente all’Islam . La sua datazione coincide con l’epoca della regina di Saba. L’archeologa americana Marilyn Philipps Hodgson, a capo di un gruppo internazionale di esperti archeologi, ha ripreso gli scavi iniziati mezzo secolo fa dal fratello Wendell. Con una speranza: provare l’esistenza storica della regina di Saba. Nell’ultima campagna (la prossima sta per partire), sono state trovate statuette dedicate a un DIO- TORO, un grande altare con 67 teste di IBIS e altri reperti. Ma nell’iscrizione di una placca di bronzo del V secolo a.C. viene citato il DIO-SOLE DHAT HANIN. Secondo la tradizione araba anche la regina di Saba oltre agli uccelli adorava un DIO SOLE. Rilievi effettuati con radar e magnetometri hanno accertato l’esistenza di 2 mila piccole statue. E scoperto che il peristilio, il portico a colonne, era a 3 piani, in gran parte ancora sepolti. Ci vorranno anni per recuperare e studiare tutto questo materiale, E potrebbe venire alla luce qualcosa della regina, magari un’iscrizione, o un regalo col nome di Salomone. “Non c’è fumo senza fuoco” ricorda con il detto dei nomadi del deserto Yusuf Abdullah, responsabile delle Antichità dello Yemen. Abdu Ghaleb, direttore incaricato degli scavi, è ancora più diretto: ” La regina è davvero esistita e questo era il solo grande tempio della regione, l’unico che poteva frequentare”. E’ importante che il mito della regina di Saba sia trasversale a diverse religioni. Ci sono prove storiche dell’esistenza di regine nella penisola arabica, che si rifiutavano di pagare i tributi agli Assiri. La regina di Saba ppotrebbe essere stata certamente una di loro. Ma la sua storia ha vissuto di vita autonoma per secoli, diventando un riferimento per i popoli della regione. Il testo antico che parla più diffusamente della regina di Saba è IL LIBRO DELLE SPOSE. L’autore, Ta’Labi, raccolse intorno all’anno mille la tradizione orale e scritta sull’argomento.. Nel libro si dice che l’upupa ammaestrata di Salomone portò alla regina a Marib, nell’area del santuario di Bilqis, un invito a corte. Lei accettò, rispettosa della fama di Salomone, ma prima mandò i suoi ambasciatori con splendidi doni. L’incontro avvenne a Gerusalemme e, nella versione araba, fu drammatico: Salomone risolse la maggior parte degli enigmi postigli dalla regina di Saba, ma perché fu aiutato dai GINN (una specie di “geni della lampada” di creazione divina). Il re poi svenne prima di risolvere l’enigma più difficile “Qual’ è la vera essenza del Signore?”. Alla fine la regina, che adorava gli uccelli ed il sole, si convertì. Il CORANO dice che Salomone l’aveva fatta passare da un pavimento di cristallo in modo che lei, pensando che fosse acqua, si sollevasse la vesti mostrando così le gambe. IL LIBRO DELLE SPOSE insiste su un particolare curioso: la regina aveva gambe belle , me pelose come quelle di un uomo ! E ciò ovviamente non piaceva a Salomone, ma nonostante tutto chiuse un occhio. Nella versione degli antichi cristiani copti d’Etiopia, la regina aveva un piede caprino, divenuto normale mentre attraversava un pavimento allagato e inciampava davanti a Salomone. Insomma, ci fu un miracolo. E anche nella tradizione ebraica, nel TARGUM SHENI, si fa riferimento ai peli della regina: Salomone ricevette la regina facendola passare prima su un pavimento di cristallo. Lei sollevò la veste, Salomone avrebbe esclamato: “La tua bellezza è bellezza di donna. Il tuo pelo è pelo di uomo” .PEr fortuna, aggiunge IL LIBRO DELLE SPOSE, i geni di Salomone inventarono il depilatore!.
Ho vissuto nella Legione Straniera.
Dirò innanzitutto perché mi arruolai nella Légion étrangère français , la Legione straniera francese,
affinché non si creda mi sia arruolato
perché fossi un criminale. Premetto che, anche se
vero che una buona parte dei legionari ha dei conti in sospeso con la giustizia,
è altrettanto vero che l’altra parte non
è affatto costituita da delinquenti. Molti sono i motivi per i quali ci si arruola nella
Légion étrangère, ad esempio per puro spirito avventuristico, o incoscienza, o per dispiaceri, o perchè creduloni nella propaganda che la Legione si incarica di svolgere in molti ambienti. Quest’ultimo fu appunto il mio caso. Ero prigioniero di guerra in Algeria, prima in campo di concentramento, poi in una grande azienda agricola e qui molto sovente passava qualche propagandista della Legione che con belle parole ci prometteva mari e monti. Fu
cosi che io, come molti altri prigionieri di guerra italiani, mi lasciai convincere e mi arruolai. Fu purtroppo un’esperienza che non consigli a nessuno, anzi dirò di
più: durante la guerra sono stato volontario in reparti italiani d’assalto, ed ho al mio attivo i fronti italo-francese, l’albano-greco-jugoslavo, ed i vari fronti dell’Africa settentrionale; quindi per esperienza diretta affermo categoricamente, che, posto nella alternativa tra rivivere tutti quegli anni al fronte di guerra come soldato italiano, o il vivere altrettanto tempo pacificamente come legionario, ebbene, opterei senza esitazioni per la prima alternativa. Fatta questa premessa, vorrei spendere alcune parole sulla storia della Legione, che è certamente gloriosa, malgrado tutto. La Légion étrangère francese fu creata da Luigi Filippo, re di Francia nel 1831, onde servirsene per la completa conquista dell’Algeria. ( quest’Algeria che per molto tempo ha anelato a diventare, con pieno diritto direi io , un popolo libero e indipendente) Allora erano soltanto pochi battaglioni, composti per lo più da disertori di diversi eserciti europei. Circa un anno dopo, egli vendette al re di Spagna Ferdinando 7° che se ne servì per combattere contro Don Carlos, fu così che nacque la legione straniera spagnola chiamata “Las banderas”: essa è composta solo di pochi battaglioni e risiede abitualmente nel Marocco spagnolo. Più tardi però Luigi Filippo , memore dei grandi servigi resigli dalla legione, ne creò un ‘altra che è quella tuttora in vita. Essa ha scritto in passato, come di recente, pagine gloriose di storia gloriosa. La sua sede è a Sidi Bel Abbès, in Algeria, i suoi 8 reggimenti sono però sparsi un pò ovunque nel vasto impero coloniale francese, impero che si può affermarlo senza tema di smentite, è stato in buona parte, conquistato per la Francia proprio dalla Legione straniera stessa ! Essa ha combattuto in tutto il mondo, e per citare solo qualche nome, dirò che nel 1859 combatté, a fianco dei piemontesi, contro gli austriaci a Magenta e Solferino; dal 1863 al 1868 fu nel Messico, ove scrisse una delle più belle pagine della sua stroria; la Festa del Corpo (il 30 aprile) ricorda appunto una di quelle battaglie. I suoi reggimenti furono distrutti molte volte, citerò per tutti il reggimento di stanza ad Hanoi nel Tonchino (Indocina) che fu annientato durante l’ultimo conflitto mondiale e dei suoi quattromila uomini, solt
anto una cinquantina ebbero salva la vita. Finita la guerra venne ricostituito e inviato nuovamente in Indocina e qui nuovamente distrutto nella battaglia di Dien-Bien- Phu. Le decorazioni francesi e straniere meritatte dalla legione e dai legionari si contano a centinaia, la sua bandiera è tra le più decorate del mondo. Ciò premesso cercherò quindi di dire in sintesi chi sono coloro che si rifugiano nella legione e quale può essere il trattamento che essa loro riserva. La legione è certamente il corpo militare più disciplinato del mondo; d’altra parte è comprensibile questa sua ferrea disciplina se si considera la sua composizione: nella legione si rifugia gente d’ogni ceto, classe e colore, vi sono stati nobili e principi russi, principi tedeschi, come il principe Federico Augusto cugino di Guglielmo II, che morì di tifo nella legione stessa come semplice legionario, vi furono ex gerarchi nazisti e fascisti, io stesso conobbi uno di questi ultimi che fu ministro durante il fascismo, come vi furono e vi saranno sempre in maggior parte, uomini dal passato oscuro, delinquenti d’ogni categoria e nazione. Hanno militato nei suoi ranghi anche ecclesiastici di un certo grado, infatti la legione può annoverare tra i suoi ex affiliati niente meno che un vescovo ortodosso di Costantinopoli. Chi si arruola nella legione straniera non è tenuto a dire il motivo che lo ha spinto a questo passo decisivo nella propria vita; alla legione poi poco importa che uno sia tedesco invece che italiano, o dica di chiamarsi Tizio invece che Caio; una volta nella legione per il legionario non c’è più patria alcuna, o meglio la sola sua patria è la legione! Il nome non ha nessuna importanza perchè a ogni legionario viene affibbiato un numero di matricola, e questo lo accompagnerà come un prigioniero di guerra o un carcerato qualsiasi per tutto il tempo in cui egli sarà un legionario e sarà il solo “nome” che conterà per la legione. Io non avevo nulla da nascondere, perciò ero arruolato con il mio vero nome e la mia vera nazionalità, ma per la legione tutto ciò non conta, si è solo legionari e basta. Il mio numero di matricola era 14728, sul libretto personale (che ancora conservo gelosamente) tutti i dati concernenti la mia situazione sono scritti in nero, mentre invece quello che concerne la nazionalità è scritto in rosso: nationalité
déclarée italienne. La legione è composta in maggior parte da tedeschi: essi occupano, si può dire, tutti i posti chiave. Tra i tanti tedeschi ricordo un certo Volmer, uomo serio, coltissimo, che era alla legione da una ventina d’anni, e per oltre dieci anni era stato istruttore ai corsi annuali sott’uffuciali e conosceva quasi a memoria l’intero manuale del sott’ufficiale (circa un migliaio di pagine). L’ho avuto per 18 mesi quale comandante di sezione, non l’ho mai inteso scambiare una parola con qualcuno se non per ordini di servizio, e non ho mai visto il suo volto accennare ad un sia pur minimo sorriso. Ora, a diversi anni di distanza, a volte ancora mi domando quale mistero si celasse dietro a quel volto impassibile. Molti ufficiali venuti nella gavetta, come si dice in argot (o “gergo”, in questo caso militare) sono pertanto tedeschi: qui mi pare estremamente importante dire che non si può essere ufficiale se non si è francese e francese basta esserlo di adozione. La sola unica distrazione, o divertimento che dir si voglia, che può avere il legionario è l’alcool, è il bere fiumi di alcool; questo anche per il fatto che raramente i reparti della legione si trovano in centri abitati di una certa importanza: a causa di ciò fra gli anziani legionari (per anziani si intendono uomini con 15-20 anni di servizio) si conta una grossa percentuale di alcolizzati cronici; dirò a tal proposito che è tale il grado di alcolizzazione di questi uomini che quando lo spaccio della compagnia rimane senza vino e liquori essi si scolano (nel vero senso della parola) anche le bottiglie di profumo e acqua di colonia ! Un’altra piaga della legione è quella sessuale, dovuta appunto ai lunghi periodi di permanenza lontano dai centri abitati. Quando un aspirante legionario arriva al Forte Saint Nicolas in Marsiglia, il solo distaccamento della legione ufficialmente esistente nel territorio metropolitano francese dove vengono arruolati i legionari, per la zona europea, egli è inviato a Sidi Bel Abbès in Algeria, sede centrale della legione, ed è solo qui che porranno l’ultima firma e le impronte digitali e diventeranno legionari a tutti gli effetti. Qui egli viene sottoposto a visite mediche minuziose, radiografie, prova dell’udito, della vista,ecc… inoltre ogni segno particolare è scrupolosamente rilevato, come la presenza di cicatrici sulla pelle o di tatuaggi sul corpo. Se per ipotesi l’aspirante legionario, dopo aver sostenute le rituali visite di cui sopra, facesse un esame di coscienza e non volesse più firmare il suo ingaggio, eh! allora apriti cielo, verrebbe messo immediatamente in cella di rigore e Dio solo sa quanto durerebbe la sua detenzione! Ricordo un sardo che si era arruolato insieme a me e poi s’era pentito prima di firmare (per firma leggi: impronte digitali): ebbene, dopo 4 mesi era ancora in cella di rigore ! E poiché siamo in tema di prigione, anche se solo di tipo disciplinare, credo valga la pena di soffermarsi un momentino. Per essere punito di prigione basta una qualsiasi mancanza insignificante, ad esempio una tasca sbottonata o le scarpe non perfettamente lucide; é da notare che la punizione da sette giorni diventa sempre di novanta giorni perché viene automaticamente aumentata dal comandante dell’unità superiore cui si appartiene e cioé da comandante di battaglione, da comandante il corpo d’armata. Vediamo brevemente come vengono trattati i puniti: all’ora della refezione vengono schierati tutti sull’attenti con la faccia al muro, un piantone, dietro ad ognuno, ed a contatto dei talloni, posa una gavetta con un pò di brodaglia, quindi il sott’ufficiale comandante le prigioni (un tedesco) ordina il dietro front che va eseguito di scatto e regolarmente, così, eseguendo il comando si urta con i talloni la gavetta e il rancio va a farsi benedire ! Oppure i puniti vengono schierati su un rango sull’attenti, la gavetta davanti ad ognuno di essi; il comandante dice: attention pour bouffer, quindi scandisce tre colpi di fischietto, al primo si prende la gavetta, al secondo si mangia, al terzo si posa la gaveta a terra il tutto in meno di due minuti. Durante la siesta, dalle 12 alle 14, mentre per tutti i legionari è obbligatorio tassativamente il riposo, per i puniti in cella di rigore invece, zaino a spalle (lo zaino viene riempito con ben 40 chili di pietre, i puniti tutti a torso nudo, le bretelle dello zaino sono in filo di ferro) eseguiscono, comandati e sorveglaiti a vista, due ore di corsa, durante la quale vengono eseguiti i più svariati esercizi, dal passo dell’oca ( si marcia stando appollaiati sui calcagni) alla marcia sui gomiti, ecc.. tutto questo di scatto, a comando e stando di corsa; ad o
gni errore di esecuzione sono scudisciate ! Di notte di tanto in tanto i puniti vengono annaffiati con un secchio d’acqua fredda gettata loro addosso dentro la cella da apposite feritoie, le celle sono piccolissime ed è pressochè impossibile distendersi, senza contare che a volte sono in 4 o 5 uomini ad occuparle ! Non ho la pretesa di aver detto nulla di segreto : sono cose che chiunque sia stato nella legione straniera conosce, anzi mi rincresce persino ricordare certe cose viste, vissute a finanche patite. Che dire ? ARRUOLATEVI NELLA LEGIONE STRANIERA ! La legione straniera non può offrire che pene e indicibili sofferenze , e poi il suo pane è tanto amaro che a distanza di molti anni ancora non riesco a dimenticarne lo sgradevole sapore.
Giovanni Odin
matricola 14728
Légion étrangère Français
Sidi Bel Abbès, , Algérie
nationalité
déclarée italienne
Guardo gli ultimi 3 post e (oltre a pensare alla stessa persona, allo stesso autore), dico: MA CHI SE NE FREGA?!?!!
Da un reduce dell’ultimo conflitto mondiale abbiamo ricevuto e letto queste rievocazioni; della durissima vita ch’egli ha sofferto , quando, spinto dalle circostanze offerte dal momento, s’è trovato in Algeria, a far parte della famosa Legione straniera. Per molte ragioni, tali rievocazioni storiche sono non soltanto molto interessanti, ma estremamente istruttive ed utili per quella gioventù avventurosa che sentisse per caso un qualche desiderio d’arruolarvisi.
Mi sia permesso dire che vi fu nella Legione un onorato cittadino torinese, una persona assai stimata (io ne ebbi la confidenza da una sua anziana sorella che non è più) non sono però autorizzato a svelare il motivo del suo arruolamento,
né il suo nome, posso dire solamente che è stato un ufficiale italiano, credo nel servizio segreto, durante l’ultimo conflitto mondiale. Egli trascorse 15 anni nella Legione straniera, morì a causa di gravi malattie, contratte in Africa; il giorno in cui si accingeva a tornarsene a casa ormai vecchio, stanco, finito, aveva dato la sua nobile vita, come tanti altri, per una bandiera che non era la sua.
Da un reduce dell’ultimo conflitto mondiale abbiamo ricevuto e letto queste rievocazioni; della durissima vita ch’egli ha
sofferto , quando, spinto dalle circostanze offerte dal momento, s’è trovato in Algeria, a far parte della famosa Legione straniera. Per molte ragioni, tali rievocazioni storiche sono non soltanto molto interessanti, ma estremamente istruttive ed utili per quella gioventù avventurosa che sentisse per caso un qualche desiderio d’arruolarvisi. Mi sia permesso dire che vi fu nella Legione un onorato cittadino torinese, una persona assai stimata (io ne ebbi la confidenza da una sua anziana sorella che non è più) non sono però autorizzato a svelare il motivo del suo arruolamento,
né il suo nome, posso dire solamente che è stato un ufficiale italiano, credo nel servizio segreto, durante l’ultimo conflitto mondiale. Egli trascorse 15 anni nella Legione straniera, morì a causa di gravi malattie, contratte in Africa; il giorno in cui si accingeva a tornarsene a casa ormai vecchio, stanco, finito, aveva dato la sua nobile vita, come tanti altri, per una bandiera che non era la sua. . La sua rievocazione dei ricordi vissuti nella Legione straniera, arruolamento per la durata della guerra, arruolamento questo di favore, se si considera che la ferma normale
è di 5 anni. Da prima Giovanni Odin fu destinato insieme a me nella tredicesima mezza brigata, che era sbarcata in Italia assieme all’ottava armata inglese, ma visto che molti legionari italiani appena in Italia disertavano, ci spedirono quasi tutti in Marocco al
3° reggimento di stanza a Fez. Qui fummo destinati all’otava compagnia montata, distaccata a Khenifra. Queste compagnie sono una specie di cavalleria, dotate di muli da sella in luogo dei cavalli,
perché il mulo
è molto più resistente alle fatiche delle grandi marce che possono durare anche dei mesi . Con queste marce a volte si giungeva fino al Congo o al Ciad, sempre alla ricerca di eventuali ribelli.
A Khenifra conobbi, insieme a Giovanni, un legionario i cui genitori erano genovesi. Egli era nato in Algeria e non aveva mai visto l’Italia, ma era tale l’attaccamento che aveva per il Paese dei suoi genitori, che quando giunse all’età di vent’anni, piuttosto che essere arruolato nell’esercito regolare francese, trovandosi nell’impossibilità di venire in Italia, si arruolò nella Legione. Io lo conobbi quando aveva già 15 anni di servizio, mentre Giovanni lo conobbe in seguito, e era trattenuto per via della guerra: fummo congedati, lo stesso giorno; il poveretto aveva patito, sofferto, per 17 anni, ogni sorta di angherie piuttosto che rinnegare il Paese che egli considerav+a la sua sola Patria. La tenuta di marcia di queste compagnie comprende anche il cappotto di panno pesante, anche con temperature, che a volte in certi luoghi salgono oltre i 50 gradi. A volte (non sempre) durante la lunga marcia viene dato l’ordine di alzare i due angoli anteriori del cappotto, in modo da poter camminare più liberamente; questo è possibile, perché il cappotto francese è provvisto sui due fianchi, all’altezza della cintura, di un bottone e i due angoli inferiori del davanti sono provvisti entrambi di un’asola. Vorrei ritornare con qualche episodio sul trattamento riservato ai legionari che Giovanni non ha posto in evidenza. Un giorno il capo magazziniere s’era accorto della sparizione improvvisa di alcune lenzuola, allora si pensò bene e senza tentennamenti di mettere al fresco tre legionari sospettati del furto: l’aiuto magazziniere (un napoletano disertore dell’esercito italiano), un tunisino (che conosceva bene tutte le galere di Francia, di Tunisia, e d’Algeria e poi, non so come, s’era arruolato nell’esercito italiano di stanza in Tunisia) e, infine, un calabrese (ex brigadiere dei carabinieri): questi ultimi due erano sospettati
perché erano in compagnia del primo. Mi fa orrore pensare alle torture che furono loro inflitte per costringerli a confessare il furto delle lenzuola; gli interrogatori a base di ogni sorta di supplizi, avvenivano sempre di notte: di giorno, perché si riposassero, erano costretti a svolgere sempre lavori pesanti; si aggiunga poi quello che ha detto precedentemente Giovanni riguardo ai puniti. Questo durò circa un mese intero, dopo di che furono tradotti alle carceri militari di Port-Lyautey, (uno lo dovettero trasportare con l’autolettiga ! ); qui subirono il processo. Risultato? Soltanto l’aiuto magazziniere (un napoletano disertore dell’esercito italiano) era il ladro delle lenzuola !: naturalmente non furono mai risarciti i danni e le invalidità subite dagli altri due disgraziati. Io stesso, una volta essendo di servizio come caporale di settimana, ricevetti tre scudisciate solo per non aver fatto correre un punito ! La cosa andò avanti così : mi erano stati affidati in custodia alcuni puniti che avevo portato alla cucina per fare dei lavori, quando il tenente-vice comandante la compagnia, mi ordina di portare il punito- Magi – in ufficio (la cicatrice che porto ancora sul labbro superiore è un ricordo lasciatomi da questo legionario, una volta che mi ero intromesso per sedare una rissa sorta tra lui e un’altro legionario). Ora costui non voleva saperne di correre (i puniti devono sempre compiere di corsa ogni loro spostamento ,come ricordava bene Giovanni); naturalmente io cercai, con le buone maniere, di convincerlo a correre, ma ahimè ! tutto fiato sprecato !: purtroppo il tenente, in attesa sulla porta dell’ufficio, ci stava osserva
ndo molto attentamente; giunti a sei passi di distanza, secondo il regolamento, mi presentai con le parole prescritte Caporal Pittavino dix huit mois de service, À vos ordres , mon lieutenant ! , l’ufficiale introdusse il punito in ufficio e per risposta mi affibia tre scudisciate; quindi mi ordina di fare 5 giri di corsa attorno al cortile della caserma dicendomi:
così impari come si fa a far correre i puniti ! In cuor mio maledissi per l’ennesima volta la Legione. E su questo punto sono sulla stessa linea di Giovanni e sicuramente di molti altri. A Colomb- Bechar, in pieno Sahara algerino, esiste anche la compagnia di disciplina, ma non ne ho avuto contatti diretti; posso dire soltanto che
è preferibile essere condannati (magari innocentemente) ai lavori forzati, piuttosto che capitare là dentro in veste di punito.C’è un fatto che credo mio dovere far presente: è credenza di tutti che una volta indossata la divisa del legionario, per chi abbia dei misfatti sulla coscienza, sia impossibile essere arrestato; ebbene niente di più errato ! Specialmente ora con l’istituzione dell’Interpol, infatti, quando la polizia di un Paese chiede l’estradizione di un delinquente, una volta ccertati e documentati l’identità del legionario e il reato commesso, l’estradizione è quasi sempre accordata . Ho detto quasi non a caso perché (fatta la legge trovato l’inganno), se alla Legione facesse comodo tenersi il ricercato, nessuna legge o polizia di questo mondo riuscirebbe a toglierlo. Quando poi uno venisse arrestato e condannato al proprio Paese, una volta scontata la pena, non potrebbe mai recarsi nei territori di competenza della Legione, perché per lui è sempre valido l’arruolamento precedentemente firmato; egli avrebb
e l’obbligo di ripresentarsi alla Legione per terminare il suo servizio; in caso contrario sarebbe arrestato e tradottovi con la forza. La cosa è diversa per chi scontasse la condanna nei territori francesi, in quanto verrebbe restituito direttamente alla Legione, non appena scontata la pena . All’ospedale militare di Khenifra , dove ero ricoverato con la malaria (altro ricordo della Legione) v’era appunto un legionario francese. I francesi possono arruolarsi alla Legione , però non come tali; essi si scelgono una nazionalità, salvo poi a chiedere la rattificazione dello stato civile, dopo qualche anno di servizio, ottenuto il quale, essi continueranno a prestare servizio effettivo nella Legione, non più a titolo straniero
bensì a titolo francese. Generalmente chi fa questo, lo fa al solo scopo di essere favorito nella popria carriera militare e una volta raggiunto un certo grado , chiede il trasferimento all’esercito regolare. Costui doveva dunque scontare una condanna di sette anni per furto, si attendeva soltanto la sua guarigione per consegnarlo alla polizia, scontata la pena sarebbe stato riconsegnato alla Legione
perché terminasse il reingaggio di 5 anni; così
per una sciocchezza, invece di due, o tre anni di carcere, ne avrebbe scontati sette, gliene inflissero sette perché era contumace, più dieci di Legione, o d’interno !…Io gli auguro, se è ancora vivo, di essere ora un libero cittadino, e che abbia figli a cui insegnare che la roba degli altri va rispettata. Nella Legione difficilmente vengono rispettate le aspirazioni (legittime) dei legionari. Credo di spiegarmi meglio con qualche esempio. Se vengono richiesti degli uomini per frequentare qualche corso, non sono tenute in nessun conto le maggiori attitudini personali per una qualifica piuttosto che per un l’altra. Io fui inviato d’ufficio per un corso di rocciatore sulle montagne dell’Atlante (Ne conseguii peraltro il mio bravo diploma). Fu poi spedito a Port-Lyautey, per un corso di minatori, qui, a tutto mio vantaggio, successe che da allievo, in capo a due giorni, ero passato istruttore, questo perché (la Legione lo ignorava !) , nell’esercito italiano era già una delle mie specializzazioni. Degno di rilievo mi pare il fatto che gli allievi affidatimi non erano dei legionari, ma bensì dei militari francesi del genio. Anche per il corso caporali ero stato scelto d’ufficio, esso durò la bellezza di 4 mesi, fu questa un ‘altra dura esperienza che varrebbe la pena d’essere narrata ma non posso coprire tutto lo spazio che ci è stato gentilmente concesso (per cui sentitamente ringraziamo) a me ed a Giovanni Odin, ma non essendo di carattere generale dirò, solo a titolo di curiosità, che durante il corso ci era stata lasciata la sola divisa spahi, la divisa della cavalleria algerina, (di divise ne avevamo 4 in dotazione): con questa divisa addosso , durante la giornata si facevano diverse lezioni, al mattino teoria, il pomeriggio che era più caldo, lezioni pratiche e tattiche di combattimento, sempre di corsa, in piedi, a terra, in un fosso, dietro un masso,e così via, la maschera antigas (la mia ossessione !) sempre sul viso, ogni tanto l’istruttore ispezionava la maschera antigas per assicurarsi che non fossero state tolte le valvole di sicurezza, se ne avesse trovata una mancante, sarebbe successo il finimondo! Ora col sudore, la sabbia e il fango , si può ben immaginare in quale stato fosse divisa quando la sera si rientrava per il rancio: ebbene, il mattino seguente, alle cinque e mezza, ci sidoveva presentare puntuali all’adunata con la divisa pulita e ben stirata; da notare tra l’altro che la sera si doveva anche studiare, perciò niente libera uscita, dopo il silenzio della sera non il
più piccolo rumore doveva essere udito nelle stanze e nessuna luce accesa ! Quanto sto per dire valeva ovviamente per tutti i legionari; al mattino, tra la sveglia e l’adunata c’erano 30 minuti, durante i quali si doveva aggiustare il letto, se in caserma , secondo gli ordini prestabiliti, quindi radersi, prendere il caffè, governare muli e cavalli e metterci in perfetta tenuta. Molte sono le definizioni date ai legionari: fra le altre, in molti luoghi, essi sono chiamati semplicemente come dei mercenari, ma se mercenario è colui che compie un atto, o seve una bandiera, magari illegalmente, per ottenere in cambio del denaro, ebbene questo non si addice certamente al legionario, in quanto la sua paga, almeno quando c’ero io, è molto inferiore alla paga del soldato regolare francese; infatti io percepivo durante il primo anno di servizio, 15 franchi al giorno, il secondo anno di servizio 20 franchi (gli scatti erano annuali, fino al tredicesimo anno di servizio, poi basta, e si arrivava a percepire sui 100 franchi al giorno) . Invece il militare regolare francese, nel territorio metropolitano e non in colonia dove invece io mi trovavo insieme a Giovanni, il secondo anno pecepiva 40 franchi, ne fanno fede i fogli di paga (che ancora conservo gelosamente, custoditi nella cassattiera del mio scrittoio pieno di carte e documenti vari avendo percepito io stesso questa paga i pochi giorni che fui a Parigi a l’École Militaire de la Place Joffre du 7 ° arrondissement de Paris in attesa di essere congedato e finalmente rimpatriato) .C’è, poi il premio d’ingaggio che nel mio caso fu di 1000 franchi, ed era di 3000 franchi per la ferma normale di 5 anni. Sulla Legione si potrebbe dire e scrivere molto di più, ma ripeto, non possiamo riempire lo spazio gentilmente concessoci per esporre il tutto. Giovanni ed io ci siamo limitati a raccontare solo alcuni fatterelli, a prima vista insignificanti, qualche fatterello accadutoci fra il 1944 ed il 1945 e sono purtroppo questi fatterelli, a prima vista insignificanti, e rendere al legionario la vita impossibile ! Una esistenza irta di spine, sempre sospesa fra la vita e la morte, mai un’ora di meditazione, un minuto di riposo; solo l’alcool la nostra unica distrazione dove poter affogare tutta la nostra tristezza, bottiglie di vino e di liquori sparsi per terra nelle nostre stanze (e in mancanza di essi, bottiglie di profumo e acqua di colonia !) mai un minuto di riposo,s empre in guerra, sempre in trincea, sedata una ribellione ecco che ne sboccia un’altra ! (Ove v’è la questione algerina) Dice uno slogan della Legione straniera: “Tutti i militari sanno vincere, il legionario sa soprattutto morire”, e purtroppo ciò corrisponde alla verità, infatti quante madri nel mondo hanno pianto e piangono ancora per i loro figli scomparsi? Sono migliaia, e molte di esse forse non sapranno mai, che essi giacciono là , sperduti in qualche parte del mondo, senza che nemmeno una croce indichi al viandante, che lì giace un eroe senza nome e senza patria che diede la sua vita combattendo, senza ideali, senza che nulla gli fosse dato e tutto chiesto per consolidare un impero di conquista di questo mondo, è destinato a sgretolarsi, perchè i popoli che si sono assoggettati hanno, come ogni popolo di questa terra, il diritto di autogovernarsi liberamente.
Arnaldo Pittavino